La pioggia, Fiume, il Vate e altri incontri

“Piove dalle nuvole sparse. Piove su le tamerici salmastre ed arse, piove sui pini scagliosi ed irti, piove sui mirti divini…” La pioggia nel pineto di D’Annunzio è poca cosa rispetto al diluvio che da   giorni martella Fiume/Rijeka e il suo festival del mare, Fiumare.

Il trasferimento da Piran/Pirano è stato tranquillo tappa notturna nel fiordo di Trget, navigazione con vento leggero da NE, manco a dirlo in faccia, poca onda e pioggia continua. Unico fatto da segnalare il tentativo del comandante di abbattere il drone che Paolo Sivelli faceva volare nel silenzio della baia.

La costa istriana, molto verde, si è salvata dalla cementificazione che invece non ha risparmiato la costa attorno a Rijeka che si annuncia con vecchi cantieri abbandonati e sulle colline grattacieli in cemento armato che sembrano spuntati come funghi dopo la pioggia. Un contrasto sconcertante con l'estetica mitteleuropea del centro storico.

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Ormeggiamo in testa al molo, davanti ai palazzi a mare del centro città. Sono venuti ad accoglierci Tea Perincic, direttrice del Museo del mare e del litorale croato,  Smilja Strika che lavora nell’organizzazione di Fiumare e uno studente del nautico che ci prende le cime.  In serata una parte dell’equipaggio tenta una sortita sotto la pioggia, dopo poco rientra sconfitto. Meglio stare in quadrato a giocare a carte. La partita è combattuta.  

Martedi 28 maggio ci alziamo sotto la pioggia.  Si comincia a vedere qualcosa dell’organizzazione di Fiumare, ancora molto indietro a causa del maltempo. Davanti alla barca enormi pozzanghere, di montare la nostra mostra non se ne parla. Ne approfittiamo per dare una bella pulita alla goletta, che alla fine brilla come un gioiello. In mattinata ci incontriamo con Tea e Robi Mohovic, organizzatore di Fiumare e direttore del museo di Moscenicka draga, col quale, cerchiamo di abbozzare un nuovo  programma che tenga conto del meteo.

Nel pomeriggio andiamo al Museo del mare e del litorale croato. Il Palazzo che lo ospita è imponente, elegante. Progettato da Alajos Hauszmann, l’architetto che ha disegnato il Palazzo reale e quello del Parlamento di Budapest. In questo palazzo che ha ospitato il primo governatore ungherese della città, si piazzò anche D’Annunzio durante il periodo del governo fiumano dopo la Grande Guerra.

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Nel Museo un graffito con scritto Arditi, che ci viene mostrato con una certa disapprovazione, ricorda la controversa impresa di D'Annunzio. La storia è nota: nel 1919 dopo la Prima guerra mondiale Trento e Trieste tornarono all’Italia ma sulla Dalmazia e Fiume, promesse agli italiani, c’era da vedersela con l’opposizione degli Stati Uniti che appoggiavano le richieste del nascente stato jugoslavo. D’Annunzio al comando di truppe volontarie, i famosi legionari, occupò la città, inizialmente per riannetterla all’Italia nonostante il parere contrario del Governo Nitti, allora in carica. Con il passare dei mesi, in una situazione di stallo totale, l’occupazione dei legionari si trasformò in una sorta di governo rivoluzionario, la Reggenza. D'Annunzio aveva in mente un piano per rovesciare il governo in Italia.  Dopo che Italia e Jugoslavia firmarono il Trattato di Rapallo, il generale Caviglia intimò a d’Annunzio di lasciare Fiume. Il poeta rifiutò e cominciarono gli scontri di quello che lo stesso D’Annunzio ribattezzò il Natale di sangue (1920). I legionari furono costretti a lasciare la città, venne costituito lo Stato libero di Fiume che nel 1924 Mussolini annetterà all’Italia.  

«Il periodo di D’Annunzio lo ricordano tutti male, i fiumani di lingua  italiana e i fiumani di lingua croata. Ancora oggi.  Di una città austro-ungarica, con una sua etica, un suo stile, D’Annunzio ha fatto una ‘puttaneria’. La città è stata isolata, hanno chiuso tutti i cantieri navali che avevano costruito tutte le grandi navi nel periodo bellico. Un periodo buio. Poi sono arrivati gli italiani nel 1924 e Fiume è diventato un porto italiano, periferico. La città che un tempo era stata il porto dell'Ungheria, con fabbriche, cartiere, zuccherifici ha avuto un lungo periodo di declino» ci spiega camminando per la città Giacomo Scotti, scrittore, poeta e traduttore che da Saviano, in provincia di Napoli, nel 1947 raggiunse la Jugoslavia. Antifascista e fervente comunista, l’allora giovane napoletano inseguiva il sogno del sol dell’avvenire. Oggi è memoria storica vivente di questi territori, una memoria critica, non allineata.

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Ha 91 anni ed è emozionante camminare con lui per Fiume di cui conosce ogni pietra, ogni angolo, ogni storia.  E a proposito di pietre siamo arrivati vicino a quella messa sul confine che la commissione italo-jugoslava ha tracciato nel 1924, vicino al letto del fiume originale. Segnava il limes  tra territori italiani e jugoslavi e divideva in due la città.

Ci sentiamo un po' in colpa per averlo costretto a camminare sotto questa pioggia. Giacomo, anzi Mino come lo chiamano gli amici, si fa una bella risata e in un italiano dove si sente ancora inconfondibile l'eco della parlata napoletana dice: " Vedete, dove c'è la chiesetta di San Giovanni Nepomuceno, lì una volta c'era un'osteria che si chiamava l'osteria degli uscocchi. Lo sapete vero chi erano gli uscocchi?"

Curzio, uno dei giovani studenti del Polo Marconi di Spezia, lo insegue con il telefonino per registrare l'audio di questo nuovo racconto sugli uscocchi, cristiani fuggiti dai territori dell'Impero Ottomano per non dover abiurare alla propria fede. Nella seconda metà del Cinquecento saltarono, uskok in croato, il confine per mettersi in salvo nei domini della Serenissima. Diventarono pirati, i più temibili del Quarnero.


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