Lupus in fabula. Ovvero l'importanza di essere equipaggio

Avete mai giocato a lupus in fabula? Noi sì. Ce l’hanno insegnato i ragazzi del nautico di Trieste nelle pause dei turni di guardia del trasferimento (28 ore 28) da Venezia a San Benedetto del Tronto. In cambio noi abbiamo cercato di spiegare loro che cosa significhi essere un equipaggio. Uno scambio equo. Lupus in fabula è una specie di gioco di ruolo che si fa con le carte. A seconda della carta che ti capita puoi essere lupo, bambina, guaritrice, prete o contadino di un villaggio immaginario. C’è un narratore che guida il gioco (nel nostro caso era Gargiulo, triestino di adozione come si può intuire). «Si addormenti il villaggio» e tutti chiudono gli occhi (lo zio, stanco come la terra tendeva a russare, ma pazienza), «Si svegli il lupo. Chi vuoi uccidere?» (e il lupo indica la vittima) «Si svegli la bambina» (e la bambina può vedere il lupo ma se incrocia lo sguardo è stecchita). «Si svegli il villaggio» dice  infine il narratore. A quel punto i giocatori devono indovinare chi è il lupo. E si va avanti così finché o il lupo viene scoperto o il villaggio sterminato. Il gioco è una specie di tutti contro tutti, con tranelli, infingardaggini, bugie e trucchi per depistare. Niente di più lontano dallo spirito dell’essere equipaggio basato sulla lealtà, la collaborazione, la solidarietà, il rispetto delle gerarchie e delle competenze. Un gioco istruttivo perché ci ha permesso di far notare la differenza tra due diversi modi di essere. Diciamo che abbiamo cercato di far capire che si potrebbe pensare anche una variante del gioco: nauta in fabula. Tradotto: marinaio in fabula. Un gioco di ruolo in cui l’obiettivo non è sterminare il villaggio ma far navigare una nave in armonia. Ci capita spesso di chiedere ai ragazzi qual è la parte più importante di una barca. Motore. Vela. Scafo. Pochissimi rispondono: l’equipaggio. E questo fa riflettere sulla disattenzione che hanno verso la forza che può nascere dal gruppo. Sono connessi ma non collegati agli altri. Sanno moltissime cose (un hurrà per i prof dei nautici!) ma mancano quasi sempre di capacità manuali, anche le più banali come tagliare un cespo di insalata. Sanno come resettare una telecamera bloccata ma non sanno fare il caffè con la moka. Fanno fatica a prendersi cura delle cose, a pulire, ad aggiustare, a fare manutenzione. Non tutti, ovvio. Non ci piace generalizzare. Diciamo che mediamente hanno poca manualità e poca propensione a fare manutenzione alle cose. Forse a bordo delle navi del futuro non servirà più l’antica arte marinara, forse sarà più importante sapere come programmare un computer o pilotare un drone. O forse no.

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Noi cerchiamo di spiegare che usare la tecnologia è bene, affidarsi completamente alla tecnologia è pericoloso. In mare, ma anche in terra, può succedere di dover fare a meno di tutto e di dover affrontare un problema con la sola forza della propria intelligenza e delle proprie mani. Ed è allora che diventa vitale essere parte di un buon equipaggio, solidale, coeso, efficiente. Ne abbiamo parlato a lungo con i ragazzi alla fine della navigazione perché siamo convinti che essere equipaggio sia uno dei capitoli fondamentali del patrimonio immateriale del mare. Pensandoci ora: forse avremmo dovuto raccontare la storia di Shackleton. A Trieste c’è un il Museo dell’Antardide Filippo Ippolito, poteva essere un bello spunto per far capire che un buon comandante e un buon equipaggio possono fare la differenza. Peccato non averci pensato prima. Sarà perché ci era venuto un colpo di sonno. S'addormenti il villaggio. ZZZZZ ZZZZ

 

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